Siamo lì carichi di aspettative e Arianna Scommegna le nostre aspettative non le delude, anzi se è possibile, le fa salire ancora più in alto con Potevo essere io, spettacolo con i testi di Renata Ciaravino.
In questi anni sono usciti diversi libri sulle giovani generazioni nei quartieri delle periferie italiane, Silvia Avallone con il suo Acciaio, Valentina Urbano con Il rumore dei tuoi passi, al centro personaggi epigoni pasoliniani senza speranza.
Anche nel testo della Ciaravino la premessa è la stessa, ambientato nei rombanti anni '80, il futuro di chi vive nei quartieri popolari sembra essere troppo lontano e nebuloso per essere salvifico. Eppure lei una speranza la dà, magari anche solo affidata al caso, il caso ti tocca con incontri ed esperienze che creano la svolta e invece di andare ad ingrossare le file dei disperati, ti salvi e fai della tua vita qualcosa di buono. Sei tu però che devi cogliere questi incontri salvifici e metterli a frutto, non ti salvi da solo, ma solo tu puoi salvarti.
Ecco quindi che mentre la voce narrante devia il suo binario anche solo per imitare una compagna neppure tanto simpatica, Giancarlo Santarelli non si salva neppure quando incontra un maestro di Kick boxing, che a suo modo è un po' filosofo, e neppure quando diventa padre, neppure la paternità lo salva, anzi lo danna ancora di più.
Il testo già di per sé di grande valore, assume una sua dimensione vitale, grazie alla galleria di personaggi che vengono incarnati di volta di volta da Scommegna con grande maestria ed abilità.
Di fronte a noi la magia del teatro che si fa nel momento in cui si fa, che rende reali personaggi inventati o vissuti in altri luoghi, in altri tempi.
Il grande teatro è quello in cui non vedi più l'interprete con il suo vestito a fiori, ti scordi di lei e in pochi istanti diventa la più cool del quartiere, il bulletto, il cantante melodico napoletano, il maestro di kick boxing anche lui con forte accento meridionale: una carrellata di personaggi, che fa di questo spettacolo uno spettacolo corale con voci molto diverse fra loro, eppure tutte magistralmente interpretate da lei, dall'unica lei sulla scena.
E per me questo ha sempre fatto la differenza a teatro.
Buio in sala, un buio così carico di aspettative, pensieri, immagini. Poi dimenticare tutto: tratti somatici, vestiti, uomo, donna, e vedere solo chi tu vuoi che io veda.
Abbattere la durissima prova della noia e fare agli spettatori una sorta di lavaggio del cervello, dimenticare la realtà con il suo peso, e venire con te dove tu mi conduci.
L'arte visiva ha bisogno di colori e forme, il cinema di sovrastrutture, riprese, costumi, scene, montaggio per arrivare lì dove tu mi vuoi portare, il teatro no, il teatro soprattutto quello di narrazione ha bisogno solo di me spettatore e di te grande interprete. Ecco perché amo il teatro sopra ogni altra forma artistica, solo i libri hanno questa dimensione biunivoca fra me e l'immaginazione, dove l'attore e il libro sono il mezzo di trasporto. E solo grandi scrittori o grandi interpreti come Arianna Scommegna possono creare questa dimensione così reale e allo stesso tempo così falsa. Quando lo spettacolo finisce e partono gli applausi, è come se finisse l'incantamento, tu ti risvegli e ti guardi intorno quasi incredula.
Eppure quel solletico allo stomaco, la sensazione di aver vissuto qualcosa di unico, rimane ancora per molto molto tempo.
di Cristina Radi
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