mercoledì 30 novembre 2016

Pastorale Americana: il sogno americano fatto a pezzi

Cinema e letteratura, nel bene e nel male, sono da sempre strettamente legati, a questo proposito ho visto recentemente American Pastoral (Stati Uniti, 2016), tratto dal capolavoro di Philip Roth, vincitore del Premio Pulitzer. Un film che ha fatto discutere, ancor prima della sua uscita, perché nessuno prima di Ewan McGregor, che oltre a dirigere il film ne è anche il protagonista, si era confrontato con questo vero pilastro della letteratura a stelle e strisce.


La vicenda narra la vita di Seymour Levov, detto “lo Svedese”, un uomo leale e coraggioso che incarna quello che nel nostro immaginario è il sogno americano. Sogno che si infrange già all’inizio della storia (anche se noi spettatori ce ne rendiamo conto solo alla fine) quando sentiamo la sua splendida bambina bionda balbettare. Un piccolo difetto nella vita perfetta dello Svedese e di sua moglie ex Miss New Jersey (Jennifer Connelly) . Difetto che diventerà sempre più grave trasformandosi in tragedia quando la figlia (interpretata da una bravissima Dakota Fanning), ormai adolescente, compie un atto terroristico che provoca una vittima.

Il dramma del protagonista esplode con un rumore ancor più assordante dell’atto terroristico della figlia, quando la vedova dell’uomo ucciso nell’attentato, dice a lui e alla moglie, che lei e i suoi figli riusciranno a sopravvivere a questo grande dolore, ma lui e sua moglie non ci riusciranno, perché hanno perso una figlia ancora in vita… La moglie impazzisce dal dolore e riesce ad uscirne e a trovare una ragione di vita nella chirurgia estetica e nelle attenzioni di altri uomini. Lo Svedese passa invece tutta la vita a cercare la figlia scomparsa, per poi ritrovarla, senza più balbuzie, in uno stato di disperazione profonda. Fa solo da sfondo al film il contesto storico del Paese, come l'oppressione dei neri d'America, che tanta parte aveva avuto nel romanzo, per lasciare spazio alla disperazione senza ritorno di un padre alla ricerca della sua bambina bionda che ormai non esiste più.

lunedì 28 novembre 2016

L'arte di Marianne Werefkin attraverso gli occhi dei bambini di Ascona

Divulgare il lavoro di un’artista donna che spesso rimane nell’ombra spazzata via dalla censura di una storia fatta di soli uomini, è già un impegno importante, se a farlo poi sono dei bambini delle elementari l’operazione diventa davvero preziosa. È il caso del lungometraggio “La vita di Marianne Werefkin” realizzato nell’ambito di un laboratorio scolastico dalle scuole elementari di Ascona, con la direzione dell’artista Carmen Perdomo.


Con la tecnica del teatro di figura, si racconta la storia dell’artista espressionista russa Marianne Werefkin, nata in Russia nel 1860 e morta ad Ascona nel 1938. Figlia di una famiglia aristocratica russa, si dedica alla pittura, diventando presto molto famosa, e continuando a dipingere nonostante un brutto incidente alla mano destra. Sfortunata in amore, si lega sentimentalmente all’artista Jawlensky, rinunciando alla sua carriera per dedicarsi alla promozione dell’arte di lui, in cambio ne riceverà solo tradimento ed abbandono. A Monaco è l’anima di un importante circolo di artisti frequentato abitualmente anche da Kandinsky russo come lei e maestro dell’astrattismo, che prende ispirazione da lei anche per alcune sue idee pittoriche. Rimasta sola si trasferisce ad Ascona, dove riprende a dipingere, accolta dal famoso cenacolo di artisti del MonteVerità, luogo in cui viene data propulsione anche all’arte delle donne. Qui trascorre l’ultima parte della sua vita, creando molte opere, che ora appartengono numerose al Museo d’arte moderna di Ascona.
Il video dei bambini è molto simpatico e ben fatto, la narrazione con i burattini di cartapesta e stoffa è scorrevole e piacevole, con un chiaro occhio artistico globale a tenere insieme divertimento ed estetica. Curati anche i dettagli come i fondali davvero apprezzabili. Qualche piccolo problema tecnico come lo stacco nero fra alcune scene che a volte rompe la fluidità della narrazione, contribuisce però a dare un senso di ingenuità, ma anche di genuinità al video.
Molto divertente anche il breve corto di soli 7 minuti “life of Marianne Werefkin in music” con la tecnica del cartone animato, realizzato sempre da Carmen Perdomo.
Complimenti quindi per l’ideazione e la realizzazione del progetto, che ha un importante valore sociale oltre che artistico.


martedì 22 novembre 2016

Il tempo delle case del Teatro dei Fauni le prossime repliche (26-27-28 novembre)

Una bambina, la sua casa rosa in riva al lago e il suo quartiere sono i protagonisti de Il tempo delle case, spettacolo di teatro di narrazione, di e con Santuzza Oberholzer della compagnia Teatro dei Fauni, accompagnata con la musica dal vivo di Tiziano Tomasetti, con la regia di Andrea Valdinocci e Walter Broggini.
Lo spettacolo che ha debuttato alla fine di ottobre al Teatro sociale di Bellinzona, sarà poi anche all'Osteria del Teatro di Banco (26 novembre, ore 19 cena, 21 spettacolo) e Sala Congressi di Muralto (27 novembre ore 17.00 e in replica per le scuole aperta al pubblico, lunedì 28 novembre ore 10.00) nella rassegna OSA!

Le case dove abbiamo vissuto ci hanno modellato, come se questo involucro, che sta un po’ oltre il nostro corpo ed emozioni, ci abbiano lasciato una traccia, sono diventate parte di noi.

Santuzza Oberholzer e Tiziano Tomasetti


Attraverso ricordi d’infanzia, la narrazione scorre, presentando brevi e divertenti aneddoti della vita e degli usi degli anni ’60, regalandoci le atmosfere di una Locarno a toni pastello e della vita di un quartiere con i suoi viali alberati, le botteghe degli artigiani, le fabbrichette che all’epoca animavano le cittadine di provincia.

La casa sul lago protagonista del racconto, che oggi non esiste più

La vita di tutti i giorni porta con sé le piccole grandi rivoluzioni di un periodo in grande fermento, dove per donne e bambine anche portare pantaloni e capelli corti, era segno di una rivoluzione generale che si stava avvertendo nell’aria. Durante il racconto, Oberholzer delinea con pennellate veloci una carrellata di personaggi ora buffi ora più autorevoli, appartenenti al piccolo mondo racchiuso dentro la casa e incontrati per strada.
Dal palazzo sul lago, quando si fa notte la protagonista si sposta nella casa dei sogni, come chiama quel luogo intimo da cui non si trasloca, dove forse abita l’anima.

di Cristina Radi



lunedì 14 novembre 2016

In viaggio con Remo Rossi

Da un’entrata discreta in Via Rusca 8 a Locarno, si accede alla Fondazione Remo Rossi, che ha sede proprio nella sua bella casa. In giardino opere dello scultore, conosciuto soprattutto per alcuni monumenti pubblici molto noti. A Locarno tante le opere funebri presso il cimitero e poi il Toro ai Giardini Rusca, il San Carlo di fronte all’omonimo Istituto per anziani o la simpatica Foca in Piazza del Governo di Bellinzona, sono solo alcuni dei suoi lavori, sotto lo sguardo di passanti più o meno consapevoli.
Remo Rossi (Locarno 1909 – Berna 1982) è ritratto in diverse foto, come un omone con le mani sporche, impregnato della sua materia: dal gesso, alla cera, dal bronzo fino al polistirolo modellato con la fiamma dell’ultimo periodo. Nella sua casa, volutamente conservata secondo lo schema originale, un archivio dei suoi scritti, una biblioteca aperta al pubblico con molti volumi d’arte, e una grande sala, dove ora è allestita fino al 5 marzo 2017 In viaggio, Remo Rossi. Appunti di uno scultore, una bella mostra che vuole portare alla luce un aspetto più privato dell’artista, ma non di minor valore.


Sono esposti diversi disegni, che costituiscono veri e propri quaderni di viaggio. Taccuino alla mano, Rossi viaggia attraverso l’Europa, tornando più volte in Italia e arrivando fino alla Grecia e alla Turchia, dove ritrae quello che dei monumenti storici, più lo colpisce, fissandolo velocemente sulla carta secondo il suo stile. Ecco quindi che le linee morbide delle Madonne del Rinascimento e delle formelle dei Della Robbia, si fanno più squadrate e quasi geometriche. 


Dai disegni fatti al volo con penna, pennarello e ripassati in un secondo momento anche con l’acquerello, ne emerge una vera passione per l’arte classica greca e romana: statue greche ritratte nei musei italiani, greci o anche inglesi, le famose Cariatidi del Partenone, animali mitologici.


La mostra è stata per la Fondazione un vero e proprio punto d’arrivo di un lungo lavoro di indagine, per catalogare e datare i disegni. Molti infatti non avevano datazione, considerati probabilmente solo schizzi ad uso privato. Attraverso il confronto con immagini fotografiche, lettere e il contatto diretto con gli enti a cui le opere ritratte appartengono, si è riusciti così a ricreare un percorso artistico e soprattutto esistenziale dell’artista. E questo credo sia il valore profondo di questa esposizione, da cui anche attraverso fotografie e scritti anch’essi esposti, trapela la vita reale dell’artista; i viaggi, le persone e i luoghi con cui è venuto in contatto, un percorso personale che fa emergere l’uomo e le sue passioni, mostrandone un lato più intimo e nascosto.

La mostra è aperta fino al 5 marzo 2017
mercoledì, giovedì e sabato 9.00-11.30
venerdì 14.00-17.30
per info: tel. 0917512166
FondazioneRR@gmx.ch

di Cristina Radi

martedì 8 novembre 2016

Le brave ragazze vanno in Paradiso, le cattive ragazze vanno dappertutto: La Cenerentola del Teatro dell’Argine

Sorellastre simpatiche e divertenti? 
DomenicA Teatro è la rassegna di teatro per bambini in programma al Teatro del Gatto di Ascona fino a maggio. La scorsa domenica ho portato i miei bambini a vedere la Cenerentola del Teatro dell’Argine di San Lazzaro (Bologna, Italia), in scena Clio Abbate, Caterina Bartoletti e Ida Strizzi.
Ida Strizzi, Clio Abbate, e Caterina Bartoletti del Teatro dell'Argine
La storia è conosciuta, ma nella versione del Teatro dell’Argine le arcinote sgradevoli sorellastre sono caratterizzate da una sfumatura ironica e divertente, che porta a far ridere moltissimo i bambini. 
La caricatissima Fatona Ida Strizzi, poi, con un marcato accento emiliano e vesti vaporose e svolazzanti assolutamente sopra le righe, è una macchietta molto amata da piccoli e grandi. 
Bello anche l’uso della tecnica mista di attori e teatro di figura per completare il cast.
Morale della favola: le cattive finiscono per mettere in ombra la brava, bella ma noiosa “Cenerattola”, la principessa dei Ratti.

Come si dice: le brave ragazze vanno in Paradiso, le cattive ragazze vanno dappertutto.

domenica 6 novembre 2016

La dottoressa Jenny c’est moi

La storia è così comune, che in modi più o meno simili potrebbe capitare ogni giorno nelle grandi città occidentali. I registi, i belgi fratelli Dardenne, l’hanno ambientata nelle periferie di Liegi, in Belgio, Stato diventato suo malgrado origine e simbolo di tutte le paure degli Europei. Per dare ancora più forza alla storia, la protagonista è una giovane dottoressa, Jenny (una bravissima Adèle Haenel, attorno al cui volto ruota tutto il film), che ha davanti a sé un futuro brillante.


Mentre si trova a sostituire un vecchio medico nell’ambulatorio di un quartiere popolare, una sera a studio già chiuso suonano il campanello, lei non apre. Il giorno successivo una giovane donna di colore, viene trovata morta dalla polizia, la stessa riconosciuta dalla telecamera dell’ambulatorio, mentre stava suonando. Questo avvenimento crea una frattura nella vita di Jenny, che in cerca di espiazione rinuncia alla carriera per restare all’ambulatorio. Attanagliata dai sensi di colpa, decide di scoprire chi è la ragazza di cui non si sa nulla. Ma la ragazza senza nome ha così poco valore, che in fondo il suo stesso nome non interessa a nessuno, un nome vale l’altro persino per la polizia: ci si dimentica persino di comunicare il funerale, di chi non è mai esistito. Con ostinazione Jenny rimesta nel marcio dei peggiori ambienti della città e delle coscienze di cittadini e istituzioni, scontrandosi con molte ombre e con un’omertà diffusa. La sua determinazione però porterà a rompere gli argini di una colpa collettiva, che in molti condividono con lei.



Il comportamento iniziale della dottoressa Jenny è razionale, fa solo quello che in molti avrebbero fatto: tenere lontano chi si presenta oltre l’orario di chiusura, chi non rientra negli schemi prestabili, chi ci destabilizza. In un’intervista a Radio24 i fratelli Dardenne parlano del valore simbolico di questo NO pronunciato da una donna, una donna intelligente, sensata, determinata e capace: il No di un’Europa, di un Occidente che chiudendo porte, alzando muri, vuole mantenere il proprio status quo a prezzo di un senso di colpa, a cui non ci si può più sottrarre a meno di accettare un’espiazione che implica la rinuncia ai propri privilegi. Jenny è disposta ad accettare tutte le conseguenze per togliersi dalla testa il proprio tormento, noi forse invece siamo ormai troppo assuefatti dalle tragiche immagini, che ogni giorno ci propinano i telegiornali, per poterci davvero sentire pronti ad andare fino in fondo, mettendoci in gioco in prima persona.

di Cristina Radi

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martedì 1 novembre 2016

Al Festival Gender Bender anche le buste hanno un’anima

Sono a Bologna per le vacanze autunnali. 
A cavallo della festività di Ognissanti, si svolge fino al 6 novembre il Festival Gender Bender, dedicato alla rappresentazione del corpo e dell’identità sessuale, con la direzione artistica di Daniele Del Pozzo. Trafelata fra uno spettacolo e l’altro, di cui è l’ufficio stampa, mi chiama Anna Maria (mia ex socia dell’agenzia di comunicazione Pepita Promoters), devo assolutamente portare i bambini a vedere L’après-midi d’un foehn – version 1 dell’artista francese transgender Phia Ménard al Teatro Testoni, luogo della città deputato al teatro ragazzi.

Phia Ménard in L’après-midi d’un foehn – version 1
Obbedisco, puntuale mi presento alle 18.30 al foyer del teatro con i miei due più piccoli di 8 e 3 anni; biglietti, un po’ di attesa, entriamo e ci disponiamo in cerchio attorno a dei ventilatori a terra, Phia è già lì in soprabito e cappello nero.
Poi dispone due buste uguali di fronte a sé e armata solo di forbici e scotch, crea una figurina fragile ma antropomorfa. Accende i ventilatori e la bambolina da povera foglia frale si libra nell’aria leggera e balla balla balla. Si uniscono a lei tante altre sorelle colorate in un vortice di danza. 
I miei figli rapiti le chiamano farfalle, di cui infatti hanno le tonalità e il volo delicato.
Poi anche Phia si inserisce nel turbinio con la pesantezza del suo corpo rivestito di nero, mescolandolo alla leggerezza colorata in un momento di pura poesia. Infine l’estasi si placa e in un accesso di rabbia distruttiva, le forbici che prima hanno creato, ora riducono in briciole le nostre farfalle. Rimaniamo tutti sbigottiti, il mio piccolino ha i lacrimoni già pronti all’angolo dell’occhio.
Il buio finale ci restituisce la giusta distanza dai miseri pezzi di plastica sul pavimento, solo miseri pezzi di plastica senz’anima. Eppure per un momento ci avevamo creduto e avevamo sognato.
Uno spettacolo fatto di nulla ma stupefacente e tenero, grazie Anna Maria!

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di Cristina Radi

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